La guerra dei mondi, il romanzo pubblicato da Herbert George Wells nel 1898, racconta l’invasione bellica della Terra da parte di supertecnicizzati, feroci extraterrestri. Nella città di Londra, in particolare, dov’è ambientata la storia, discende uno strano cilindro di enormi dimensioni, creando un immenso buco nel terreno. In un primo momento tutti pensano ad un meteorite, ma poi, una volta apertosi il coperchio della macchina infernale, si scopre con orrore e raccapriccio che si tratta invece di marziani, di creature aliene tutt’altro che pacifiche – basti pensare che si nutrono di sangue umano –, ominidi dotati di enormi teste con ridotte appendici tentacolari, residui di un corpo simile al nostro, le cui lucide macchine a tre zampe, rapide, possenti, abili nel lavoro e nell’offesa, son l’involucro artificiale dei loro organismi, i quali, deperiti nel fisico, hanno sviluppato unicamente l’intelletto, il cervello; (e insieme con il corpo, d’altro canto, in loro si son atrofizzati anche gli istinti e i sentimenti: questi uomini del domani, insomma, prefigurazione wellsiana di uno stadio di evoluzione che il genere umano dovrebbe raggiungere in un lontano futuro, altro non sono se non enormi cervelli innestati su splendidi automi). La storia a questo punto si fa doppiamente terrorizzante: sia perché descrive come i marziani avanzino indisturbati, seminando ovunque il panico, la morte e la distruzione; sia perché stigmatizza, soffermandosi nel dettaglio, la disastrosa e regressiva reazione emotiva dei terrestri in fuga – orripilante cronaca di una paura che manda in frantumi ogni principio di solidarietà e morale comune; principi che si rivelano pertanto, al dunque, posti di fronte ad un evento come questo che tira in ballo prima d’ogni altra cosa l’atavico istinto di conservazione, quali mere sovrastrutture molto poco radicate nell’etica umana. Ed è ovvio che, detto questo, altamente simbolico – ironico frutto della grande ed amara inventiva wellsiana – risulta la trovata finale del libro, e cioè il fatto che la sconfitta degli invasori, altrimenti invincibili e, quindi, la conseguente salvezza dell’uomo, avvenga a causa di minuscoli microbi: vale a dire, di quella specie di esseri viventi che, nella scala dell’evoluzione, rappresenta appena il primo gradino: la più infima forma di vita sulla terra. Considerato il capostipite di un genere particolarmente fortunato della fantascienza – vale a dire, di quello che si occupa di narrare, appunto, l’invasione della Terra da parte di civiltà aliene a seconda dei casi più o meno aggressive – La guerra dei mondi esprime, in toni ed atmosfere da incubo ossessivo, il funesto presagio di una possibile estinzione dell’uomo per mano della tecnologia, mostrando al lettore, d’altro canto, quali sarebbero i risultati angosciosi di un evento catastrofico che investisse, e colpisse a morte nel suo apparato tecnico-economico, la civiltà terrestre nel suo stato attuale di sviluppo: anarchia, carestie, pestilenze, dissoluzione di ogni organizzazione civile, nonché lo sgretolamento di qualsivoglia valore spirituale; in breve, un ritorno al quel pauroso caos dell’originaria animalità che nel libro è così ben raffigurato dall’immagine del prete che, terrorizzato, invece di cercare conforto in Dio, voracemente divora tutte le sue provviste e beve fino ad ubriacarsi per sfuggire alla terrificante realtà.
La macchina del tempo, il romanzo pubblicato da Herbert George Wells nel 1895, è un amaro apologo fantascientifico che ha per protagonista la figura del “Viaggiatore nel tempo”, il quale, grazie ad una macchina di sua invenzione, può muoversi appunto non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Grazie ad essa, dunque, egli si sposta di alcuni millenni, atterrando in un luogo dalla vegetazione bella e rigogliosa nell’anno 802.701; e la prima cosa che scorge, appena uscito dal futuristico trabiccolo, son dei grandiosi edifici, sparsi qua e là nel verde e non radunati a formare una città, i quali però, visti da più vicino, gli appaiono invece decisamente in rovina. Gli abitanti di questi edifici, gli Eloi, sono strani personaggi, quasi eterei, di corporatura minuta, vestiti con abiti dai colori sgargianti. Essi vivono in gruppi – essendo scomparso, dalle loro menti, il concetto di famiglia – trascorrendo la giornata senza lavorare, costantemente dominati dal sentimento della paura. E ben presto il Viaggiatore scopre anche il perché di questa misteriosa paura. Nel sottosuolo, infatti, vivono i Morlocchi, i proletari di questo mondo, i quali – pur essendo incapaci di sostenere la luce del giorno – ne sono divenuti i padroni e, ben consci della loro superiorità, hanno preso il sopravvento sui ricchi Eloi, i quali, giunti oramai al culmine del progresso scientifico e tecnologico, hanno attutito tutte le loro facoltà e, ridotti a creature larvali, inattive e incapaci, finiscono in pasto ai crudeli avversari. Scoperto ciò, il “Viaggiatore”, dopo alcune peripezie – che consistono sostanzialmente nel riuscire a recuperare la macchina che i Morlocchi gli han rubato – parte dal mondo degli Eloi e si sposta ancor più avanti nei millenni, atterrando su una spiaggia glaciale dove oramai – apocalittico, annichilente futuro – ogni segno di vita è del tutto scomparso. Dopodiché, fa rotta verso casa ove, una volta giunto, racconterà agli amici la sua straordinaria avventura di cui l’unico ricordo tangibile saranno due fiori appassiti che una donna degli Eloi gli ha regalato come segno di affetto e di gratitudine per averle salvato la vita. Celebre romanzo di fantascienza, tradotto in molte lingue, La macchina del Tempo è, al tempo stesso, una satira beffarda della società capitalista, una lezione di vita – che insegna come solo la lotta e il pericolo tengano deste e feconde le migliori attività dell’uomo – ed infine, una paradossale teoria scientifica che doveva trovare impensate applicazioni – si veda, ad esempio, l’opera di Marcel Proust o il concetto joyciano di “flusso continuo di coscienza” – nel campo della filosofia e delle lettere.