I Viaggi meravigliosi per mari e per monti del barone di Münchhausen, pubblicati anonimi da August Gottfried Bürger nel 1786, sono in realtà una traduzione-rielaborazione di un testo, pubblicato anonimo in inglese, nel 1785, da un altro scrittore tedesco, R. E. Raspe, il quale, a sua volta, aveva ripreso gran parte degli episodi – raggruppandoli e creando una trama filata – da un giornale umoristico intitolato “Vademecum für lustige Leute”, pubblicato nel 1781 dall’editore viennese F. C. Nicolai, che aveva raccolto, chiamandole semplicemente “Storie di Münchhausen”, sedici delle mirabolanti avventure narrate in prima persona dal barone di Münchhausen stesso, personaggio realmente esistito (1720-1797), originale e bizzarro nobile del Braunschweig il quale, dopo aver partecipato alle campagne di Russia combattendo in un reggimento di corazzieri di Riga contro i turchi, una volta ritiratosi in pensione nel suo podere di Bodenwerder, si era effettivamente divertito a intrattenere i propri ospiti ed amici con il racconto delle proprie inverosimili e paradossali esperienze di caccia e di guerra; ed il suo talento nel creare allegre fandonie era divenuto a tal punto di dominio pubblico – esse passavano oramai di bocca in bocca – che ben presto egli venne soprannominato, e ovunque conosciuto, con l’appellativo di “Lügenbaron”, vale a dire di “Barone fanfarone”. Anche nel libro di Bürger, naturalmente, le avventure sono narrate in prima persona dal barone stesso, e con un tono di così spensierata innocenza da far sì che il lettore prenda quella sfilata di incredibili peripezie completamente avulse dalla realtà, non tanto come la mistificazione di un millantatore che spaccia menzogne per verità, quanto piuttosto come un’allegra sequela di lunatiche, leggere ed argute fantasticherie. Non è possibile, naturalmente, delineare un riassunto dell’opera, che si compone per l’appunto di una teoria ininterrotta di imprese di guerra, di caccia e di esplorazione; ma basterà indicarne alcune per riuscire ad esemplificare che genere di scatenata fantasia visionaria da esse si sprigioni: tra le tante, come egli fosse riuscito a riemergere da una palude tirandosi per i capelli; come, durante una nevicata, avesse legato il cavallo ad un palo che, al rapido sciogliersi di metri e metri di neve, si era rivelato essere la guglia di un campanile, a cui il cavallo era rimasto appeso; come fosse entrato ed uscito da una città nemica, assediata, a cavalcioni di palle di cannone; come fosse arrivato per ben due volte sulla luna. Racconto magicamente sospeso tra satira e nonsenso, che ebbe fin dal principio uno straordinario successo di pubblico, soprattutto in Germania, Francia ed Inghilterra – molti sono gli autori, anche celebri, che vennero attratti dalla sbruffonesca ed anche un po’ stregonesca figura del barone – I viaggi meravigliosi per mari e per monti del barone di Münchhausen sono dunque, in definitiva, una sorta di spassosa antologia di spiritosissime fanfaluche che mirano e ben riescono a coinvolgere il lettore – “immergendolo” in un paesaggio fatta di cervi con ciliegi tra le corna, isole di formaggio e corni da caccia che suonano improvvisamente da soli – in quella che è in fondo la loro più grande impresa: farsi beffe, per una volta almeno, della “pesantezza” della cosiddetta realtà.
Le prodigiose avventure di Tartarino di Tarascona e Tartarino sulle alpi, i due romanzi pubblicati da Alphonse Daudet, rispettivamente nel 1872 il primo, e nel 1885 il secondo, hanno entrambi al centro delle loro trame, quale protagonista assoluto, un anziano e ricco scapolo di Tarascona, Tartarino appunto, buffo e corpulento piccolo borghese, il quale – è questa la trama del primo dei due romanzi –, dopo aver per anni “rifilato” ai suoi compaesani, con simpatica mitomania, la storia di alcune sue “presunte” gloriosissime imprese, allo scopo di farsi bello ai loro occhi, un giorno decide di partire per davvero per l’Africa a caccia di leoni. Così, bardato d’abiti esotici ed armato di tutto punto, egli approda in Algeria. Questa però, non è affatto la terra selvaggia e piena di belve feroci che la sua ingenua mente, eccitata dalle letture di Cooper e di tanti altri autori di avventura, si aspettava di trovare. E dunque, al termine delle molteplici ed esilaranti vicissitudini che in quei luoghi gli tocca di sopportare, l’unica preda che egli riesca a catturare è un vecchio leone cieco (esibito nelle piazze da un mendicante), la cui pelle tuttavia, bucata da due pallottole e spedita a Tarascona, gli varrà ugualmente la gloria sognata; cosicché, al momento del rientro in patria, seguito da un vecchio e stanco cammello che nel frattempo gli si è affezionato, egli sarà accolto come un vero e proprio eroe dalla folla in festa dei taragonesi, nuovamente pronti ad ascoltare, per interminabili giorni, dalla sua stessa bocca, l’iperbolico racconto delle sue gesta. Dieci anni dopo – ed è questa la trama del secondo romanzo – Tartarino, sfidato dal perfido concittadino Costecalde, si dà all’alpinismo e parte per la Svizzera con il fermo proposito di scalare le vette più pericolose, ma, durante una sosta in una baita di montagna, si imbatte in una giovane russa (in realtà una rivoluzionaria nichilista) di cui si innamora all’istante, rimanendo così coinvolto in un intrigo di spionaggio politico. Prototipo perfetto dell’alpinista sprovveduto, egli decide più avanti di scalare addirittura il Monte Bianco, anche perché un suo conterraneo, Bompard, che egli ha incontrato del tutto casualmente e che fa la guida turistica in quei luoghi, lo ha convinto del fatto che tutti i pericoli che egli scorge intorno a sé altro non siano, in realtà, se non innocue “finzioni”, essendo la Svizzera, a suo dire, né più e né meno che una grande azienda organizzata per dare il “brivido dell’avventura” al turista straniero, senza che questi corra rischio alcuno. Nel corso della scalata, però, Bompard, che Tartarino ha trascinato a forza con sé, è costretto a rivelargli la verità ed i due, allora, tremanti, per non sfigurare l’uno agli occhi dell’altro, decidono in ogni caso di provarci. L’esito della spedizione è ovviamente disastroso. Persisi in una tormenta di neve, i due compagni per salvare la propria pelle tagliano, ognuno all’insaputa dell’altro, la corda che li lega insieme e, scendendo, l’uno dalla parte francese, l’altro da quella italiana, riescono a tornare a Tarascona dove, ciascuno pensando che l’altro sia morto, si rincontrano, finendo, come al solito, per raccontare con la più fervida fantasia le loro comuni eroiche gesta. Giustamente considerati, per la facilità di lettura, per la comicità ingenua delle situazioni e la delicatezza lirica e rabescata dello stile, quali classici per l’infanzia, questi due libri di Daudet sono quindi, per il lettore, l’occasione propizia per conoscere una delle più divertenti icone della letteratura europea: quella del meridionale vanaglorioso e maldestro, dello spaccone bonario dalla cordialità loquace e fracassona, sempre in bilico tra la grandiosità della sua sbrigliatissima immaginazione e la meschinità della sua realtà; un’icona in cui la scrittura gaia, e a volte lievemente malinconica, dell’autore ha cifrato la sua visione indulgente delle debolezze umane.